Alla fine dell’asilo nido mio padre iniziò a darsi da fare per mantenermi.
Per la prima volta dimostrava di tenere a me.
Qualcosa era cambiato.
O almeno … a me sembrava così.
Faceva straordinari su straordinari.
Tutti i giorni.
Lavorava sedici ore al giorno.
Per mantenermi.
Quello di mio padre era un tirocinio non retribuito.
Ma io ho sempre apprezzato l’intenzione.
Qualcosa era cambiato. Iniziammo perfino a fare delle passeggiate nel parco come le vere famiglie. Quelle con i genitori ed i nonni sani di mente. Quelle che portano figli e nipoti in giro senza guinzaglio, li fanno curare da pediatri, piuttosto che veterinari, e li ingozzano di merendovetti Kinder e non di biscotti per cani.
Ricordo ancora la nostra prima passeggiata da vera famiglia. Da famiglia sana.
Avevo tre anni. Ero in strada. Con mio padre e mia madre.
Io avevo una magliettina rosa.
Sulla magliettina rosa la scritta fucsia: “Barbie”.
Avevo una gonnellina.
Avevo i capelli lunghi. Legati con dei gommini rosa. Con le farfalle.
Ero in strada. Con mio padre e mia madre.
Trovammo un signore. Non lo avevo mai visto.
– È un maschio o una femmina? – chiese il signore.
A mio padre non piacevano le domande stupide. Non erano mai piaciute.
– Un maschio – rispose.
Avevo tre anni ed era scoppiata la mia prima crisi d’identità sessuale.
Quando tornai a casa, controllai sotto la gonna se c’era qualcosa che mi era sfuggito in quei primi anni. Controllai. Mi sembrava tutto in ordine.
Da quel giorno mi riuscì difficile afferrare la differenza tra maschio e femmina. Soprattutto considerando che i genitori italoamericani della mia migliore amica anni prima avevano avuto la brillante idea di chiamarla Andrea.
Venne il tempo delle elementari.
Il mio primo giorno.
Tutte le bambine avevano un grembiulino rosa.
Tutti i bambini avevano un grembiulino nero.
Mia madre mi vestì con una tuta rossa.
Il che non mi aiutò con la mia crisi di identità sessuale.
Inutile dire che non aiutò nemmeno il mio inserimento.
Come non lo aiutò il fatto che ero l’unica senza zaino, senza libri, senza quaderni, senza niente. Le mie compagne di classe facevano a vanitosa gara a chi aveva più evidenziatori, i miei compagni di classe facevano a viril gara a chi aveva il lapis più lungo, io neppure avevo uno zaino. Che poi, effettivamente, su questo punto mio padre aveva ragione: “a cosa ti serve uno zaino se non hai nemmeno i libri?” La cosa su cui forse aveva meno ragione era la sua ferma convinzione che “i libri sono qualcosa di superato, quindi tu fai senza e stai attenta alle spiegazioni della maestra”. Per certi versi socratico. Ma nutro ancora dei dubbi sulla validità didattica della sua posizione. Anche alla luce del fatto che prendo ripetizioni di tutte le materie, educazione fisica compresa (sono parecchio scoordinata), dalla fine del primo quadrimestre di prima elementare.
“La vera scuola è la vita” – diceva.
Lo aveva sentito in un film.
Ma lo spacciava vigliaccamente per farina del suo sacco.
… continua…